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Safar Masala – Mostra fotografica

Gli articoli e le foto del nostro ultimo viaggio in India e Bangladesh sono diventati una mostra!
Da oggi per due settimane potete visitarla (e magari appuntarvi le ricette) presso la Facoltà di Studi Orientali de La Sapienza, Via Principe Amedeo 182b (ex Caserma Sani, zona piazza Vittorio).
Quando la mostrà si sposterà, ve lo faremo sapere.

Carola Erika Lorea e Matteo Miavaldi

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Alunni stranieri? Per la Gelmini non oltre il 30% per classe

scritto per Rivist@

Il ministro Gelmini ha proposto di istituire un tetto massimo del 30% per gli alunni stranieri nelle classi degli istituti scolastici italiani. Cosa ne pensano gli stranieri? Lo abbiamo chiesto a Marco Wong, presidente onorario di Associna, che giovedì 28 gennaio parteciperà ad un’audizione parlamentare dedicata all’istruzione ed all’integrazione, due concetti che il signor Wong incarna perfettamente: nato a Bologna da genitori cinesi nel 1963, ha completato il suo percorso di studi con una laurea in Telecomunazioni al Politecnico di Milano; ha lavorato per Pirelli, TIM, Huawei Technolgies Italia. Oggi vive a Roma e ricopre la carica di presidente di Associna, l’associazione dei cinesi delle seconde generazioni.

R@: Cosa ne pensa della proposta del ministro Gelmini, che assegna alle presenze di alunni immigrati nelle classi un tetto massimo del 30%?
MW: La difficoltà nel realizzare un obiettivo come quello della Gelmini sta nel fatto che la maggioranza degli stranieri si concentrano in alcune aree della città, non sono omogeneamente distribuiti nel territorio. Ci sono quindi alcune scuole dove in effetti questo obiettivo del 30% è più facilmente raggiungibile, ma ci sono altre aree in cui c’è una forte concentrazione non per una particolare volontà, ma anche solo per motivi economici o sociali, in presenza di un centro consistente di immigrati oppure di prezzi più bassi. In queste aree, il rispetto delle percentuali suggerite dal ministro Gelmini sarebbe decisamente più problematico.

R@: Sempre secondo il ministro Gelmini, coloro che dimostreranno una competenza linguistica sufficiente non rientreranno nel conteggio. Ma questo livello, da chi è determinato? Chi decide se un immigrato raggiunge o meno la sufficienza linguistica?
MW: Infatti questo è uno dei punti deboli della proposta. Diciamo che l’obiettivo generale potrebbe essere condivisibile, essendo più facile per una classe più varia raggiungere l’obiettivo dell’integrazione. Purtroppo, la bontà di una legge si valuta in base al modo in cui si applica, ai mezzi che ci sono per poterla applicare. Altrimenti, si tratta solamente di un sogno, o di un proclama. Come poter realizzare questo obiettivo? E’ un interrogativo al quale ancora non è stata data una risposta. Nel contempo però, si verificano continui tagli su quei capitoli di spesa che dovrebbero proprio concorrere alla realizzazione di queste quote. E’ tutto molto contraddittorio: da un lato si pone un obiettivo, e dall’altro si tagliano i mezzi per raggiungerlo.

R@: Quali sarebbero secondo lei gli strumenti per facilitare il processo di integrazione?
MW: Sicuramente andrebbero supportate tutte quelle iniziative che tendono a superare il gap linguistico, che è l’ostacolo principale all’integrazione. E attualmente gli istituti scolastici non sono nelle condizioni per affrontare questo genere di problematica. All’interno della comunità cinese, ad esempio, è molto frequente il caso di ragazzi nati in Italia che, non potendo essere seguiti adeguatamente dai genitori per motivi di lavoro e non riuscendo a superare le difficoltà linguistiche nella scuola italiana, vengono mandati a crescere in Cina: lontani dai genitori e viziati dai nonni, abituati ad uno stile di vita medio-alto grazie ai soldi che ricevono dai propri genitori in Italia. Poi, quando i genitori in Italia raggiungono un certo grado di stabilità, magari in età adolescenziale, vengono fatti tornare in Italia, soffrendo di un gap linguistico-culturale ancora maggiore, in aggiunta alla differenza nello stile di vita: qui in Italia non appartengono più al ceto medio-alto cinese, ma al ceto attualmente più basso nella scala sociale italiana: l’immigrato. Inoltre le cosiddette seconde generazioni, in questo contesto legislativo, nonostante siano nate in Italia oggi si ritrovano ad essere stranieri nel loro paese natale.

R@: Secondo lei, per quale motivo il diritto alla cittadinanza è così difficile da far valere per un immigrato in Italia?
MW: Per certe fasce della popolazione, verso le quali addirittura si cerca di creare un clima di ostilità nei loro confronti, la burocrazia italiana, generalmente inefficiente, per alcuni lo è ancora di più. Ad esempio, io dico sempre che il primo contravventore della legge Bossi-Fini è lo Stato stesso. La legge prescrive che il permesso di soggiorno deve essere rilasciato in venti giorni: secondo le ultime statistiche, risulta che il documento arrivi a destinazione dopo 200 giorni, con picchi di 280 giorni. C’è gente che si vede arrivare il permesso di soggiorno già scaduto. Questo indica la scarsa volontà di applicare la legge stessa. Con la criminalizzazione della clandestinità poi, l’applicazione attuale della legge Bossi-Fini finisce per alimentare se stessa. I criteri stessi per ottenere la cittadinanza esistono, ma non sono assolutamente trasparenti. Per questo il diritto alla cittadinanza non è più un diritto, sembra oramai una sorta di concessione.

R@: Tornando alla scuola, secondo lei gli insegnanti sono preparati adeguatamente dallo Stato ad affrontare la sfida dell’immigrazione? Esistono corsi di aggiornamento o, specie nelle grandi città, reti comunali che mettano gli istituti scolastici in contatto con gli studenti universitari di lingue orientali o mediatori di altro tipo per aiutarli nelle classi?
MW: Come spesso succede, molto è lasciato alla buona volontà degli insegnanti. Ci sono lodevoli esempi che, grazie alla volontà del singolo, riescono ad ovviare ai deficit del sistema. Come al solito è un problema di fondi, e quel poco che viene dato viene usato maggiormente per far fronte a situazioni di emergenza, piuttosto che investirlo in programmi di integrazione. Nel quadro generale direi che manca un po’ questa volontà di cercare di dare una vera risposta a queste tematiche.

R@: Nel processo decisionale dei provvedimenti diretti a regolare la vita delle comunità migranti, come questo dell’istruzione, le comunità stesse si sentono coinvolte? Chi porta la voce degli immigrati nelle sedi istituzionali? I partiti si sono aperti alle minoranze del nostro paese?
MW: La migrazione, si dice, è un problema recente. Non è vero: nell’Italia del boom economico, la migrazione dal sud al nord del paese aveva le stesse caratteristiche dell’immigrazione odierna. All’epoca, si potevano trovare per le città gli stessi cartelli che oggi insultano le minoranze, c’era chi non voleva affittare la casa ai terùn…la differenza principale è che nella migrazione interna, i migranti erano anche elettori, ciò che i migranti di oggi non sono. Per cui, un calabrese che negli anni ’50 si trasferiva al nord, pur affrontando un gap linguistico-culturale simile ad un migrante di oggi, rappresentava per le istituzioni un potenziale elettore, e come tale doveva essere tutelato e coinvolto. Questo non si verifica con gli stranieri. Dal punto di vista politico è molto più vantaggioso escludere dagli aventi diritto di voto gli stranieri e anzi usarli come un argomento di campagna elettorale. Finché non ci sarà la possibilità di esprimere il voto per i cittadini stranieri, il problema dell’integrazione resterà irrisolto. La rappresentatività dei cittadini è uno dei fondamenti della democrazia: “no taxation without representation” dicevano i coloni americani prima della rivoluzione americana. La maggior parte degli ex-stranieri eletti in parlamento vengono eletti perché giustificano determinate politiche nei confronti degli stranieri stessi. Chi viene eletto? L’ex musulmano, ad esempio, che maggiormente da contro alla propria comunità di origine, con relativa eco mediatica ed appeal politico. Si tende a considerare l’immigrato come un problema, non come un cittadino con esigenze da risolvere. Quello che io vedo è che, purtroppo, molti degli sforzi fatti oggi in Italia non sono incanalati verso il cambiamento, ma nel tentativo di fermare il cambiamento. Molti dei ragazzi che sono oggi nelle scuole, saranno i cittadini del domani, ed è nell’interesse dello Stato che diventino dei buoni cittadini. L’investimento che si fa nell’educazione è sicuramente qualcosa che ritorna amplificato tantissime volte, quindi bisogna cercare di fare questo investimento nella società del domani.

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Italiani, siete pronti alla svolta cinese di internet?

Nel preciso istante della collisione tra il souvenir meneghino e le labbra del nostro presidente del Consiglio, è iniziato in Italia un processo di modernizzazione. Se qualche anno fa qualcuno avesse ipotizzato una virata delle istituzioni italiane verso la politica cinese del controllo mediatico, sarebbe stato additato come un pazzo o un vecchio catorcio stalinista, portatore di povertà terrore e morte, citando fonti autorevoli del nostro ordinamento statale attuale.
Invece sta succedendo ora, e noi non siamo pronti.
La stretta che il ministro Maroni ha annunciato per “le manifestazioni ed i siti internet” sembrano le dichiarazioni di un funzionario qualsiasi della Repubblica Popolare Cinese.
Suo Huijin, una studentessa di giornalismo della Tsinghua University di Pechino, ha analizzato lo sviluppo di Wikipedia in Cina, intervistando un funzionario delle agenzie di controllo istituite dal governo cinese per monitorare il traffico di dati nel web.
In Cina, Wikipedia subisce un oscuramento a fasi alterne: certe volte l’accesso all’enciclopedia libera è negato direttamente dal server (il famoso messaggio “Pagina non trovata”), mentre altre volte la censura argina solamente alcune voci giudicate dal governo pericolose o eversive.
“Da un lato, Wikipedia è molto importante in termini di diffusione della cultura e della conoscenza tra la popolazione – ha dichiarato a Suo Huijin il funzionario, che ha preferito restare anonimo – d’altro canto questo significa che il mezzo di comunicazione può anche essere usato da piccoli gruppi di elementi anti-cinesi, pubblicando informazioni che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza nazionale, la stabilità sociale e l’unità etnica del Paese”.
Alla domanda “Ma come può Wikipedia mettere in pericolo la sicurezza dello stato?”, l’intervistato ha spiegato:
“Un piccolo gruppo di malintenzionati è più forte di un grande gruppo di benintenzionati. La forza del piccolo gruppo di malintenzionati renderà Wikipedia una piattaforma per la divulgazione di informazioni cattive, capace di mettere a repentaglio lo stato e la stabilità sociale”.
Il paradigma che in Cina giustifica l’oscuramento di Wikipedia, Facebook, Twitter e la censura di migliaia di siti internet sta per essere importato in Italia, un paese vecchio e arretrato nell’alfabetizzazione informatica, un paese che non capisce di cosa si sta parlando, ma ha paura.
Quando Maroni parla di Facebook e di libertà del web, quando Vespa racconta a Porta a Porta che Tartaglia è un soggetto “vicino ai social network”, si stanno usando delle parole vuote. Chi li ascolta, nella maggior parte dei casi, non ha la minima idea di cosa sia un social network, ma è spaventato sentendolo accostare alla sicurezza dello stato in pericolo e al nome dello psicopatico (così ieri descrivevano Tartaglia da Vespa) che ha attentato alla vita di Berlusconi.
In un clima di paura indotta, di ignoranza del mezzo di internet e di confusione, potrebbe succedere di tutto: demonizzare in toto i social network e gli internauti attivi, far nascere la necessità di un controllo del web più serrato, assecondare quella necessità.
“La conoscenza e la cultura hanno molti modi per progredire – ha chiosato il funzionario cinese – non si fermeranno di certo perchè Wikipedia è bloccata”.
Facciamo molta attenzione a questo tipo di argomentazioni; potremmo rischiare, una mattina, di svegliarci circondati da un grande firewall, non solo telematico.

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Carabinieri, la fiction continua

Carabinieri, la fiction, è arrivata alla settima edizione. Attraverso la finestra di Canale 5, da sette anni l’allegra combriccola dell’Arma è entrata nelle case di tutti gli ascoltatori votanti d’Italia, assieme alle storie d’amore, i litigi, le incomprensioni, le risate e le battute: una sorta di Caserma del Grande Fratello, con belloni, buontemponi e maggiorate a rotazione seriale.
Maurizio Costanzo, il 12 maggio del 2002, la definiva come «fiction domestica, frugale, utile ad avvicinare il pubblico ai carabinieri, da sempre in mezzo alla gente»: a dieci mesi dalla morte di Carlo Giuliani, se ne sentiva il bisogno. Non dico sia stata ideata e realizzata appositamente, ma come operazione di restyling d’immagine dei cento carabinieri che girano una caserma mentre uno tiene ferma la lampadina, è stata un’operazione senza dubbio di successo.
Ricordo che da piccolo le barzellette sui carabinieri andavano per la maggiore: un corpo dell’esercito vessato dallo sfottò, imbecille per antonomasia, fucina inesauribile di materiale per la produzione cinematografica trash.
Poi, in coincidenza con gli impegni di esportazione democratica, prima scemi del villaggio, poi simpatici e frugali intrattenitori del focolare domestico, i carabinieri hanno acquisito lo status di eroi. Eroi in un sacco di plastica nero, ma eroi. Ed intoccabili.
Guai a criticare i carabinieri, i “nostri eroi quotidiani” (Ignazio la Russa, 22 gennaio 2009), garanti della nostra sicurezza dentro e fuori i nostri confini.
Questo mito delle forze dell’ordine, dei corpi armati, malamente importato dagli Stati Uniti, ha un qualcosa di diabolicamente demagogico, di arma di distrazione di massa, come le epopee hollywoodiane della cavalleria di John Wayne: sangue di comanche sul teleschermo, sangue di coreano e vietcong in asia.
Anche per questo, quando le foto del cadavere di Stefano Cucchi, sfigurato come quello di Federico Aldrovandi, compaiono sulle pagine dei giornali, la versione ufficiale è “una caduta sulle scale” e Ignazio La Russa difende immediatamente a spada tratta la categoria delle forze dell’ordine.
Carlo Giuliani, Gabriele Sandri, Federico Aldrovandi,  Stefano Cucchi…tutte mele marce. Troppe mele marce per difendere a cuor leggero la categoria. Dove sono le dichiarazioni di condanna degli alti ufficiali delle nostre forze dell’ordine? Dove sono le scuse alle famiglie? Dove sono i colleghi di questi delinquenti in divisa? Dove sono le sentenze esemplari?
Le famiglie di questi morti accidentali, senza giustizia e senza pace, mentre l’ennesima fiction fa da sfondo alle loro cene, stanno ancora aspettando un segnale. E’ una serata come le altre: chiusi al sicuro nelle proprie case, con un figlio sepolto sotto tre metri di terra senza un perchè.

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La Squadra di Berlusconi e quelli di sinistra

E’ da quindici anni che giochiamo su un campo di calcio. Erroneamente, ricordiamo il 1994 come la data della “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, ma ci hanno mentito. Non è stato lui a scendere in campo: lui già c’era, gli serviva solo un’altra squadra contro la quale giocare. Noi.
Da quindici anni a questa parte, la linea di metà campo divide l’Italia in due squadre: i berlusconiani e i non berlusconiani, i comunisti, “quelli di sinistra”. E nel derby ininterrotto della politica dopo Berlusconi, comunista e sinistra sono parole completamente desemantizzate. Sono diventate delle parole vuote, senza significato, ma con accezione negativa affibiabile a chiunque: dire che “il capo dello Stato e la Consulta sono di sinistra”, non indica più un’appartenenza politica, ma è una frase pronunciata e percepita dal popolo dei berluscones come un insulto. Idem per i giornalisti, i maestri, i registi, gli studenti, i magistrati, i comici ecc.
Abbandonato il significato originale, la parola “sinistra” ha perso anche tutti i termini di paragone grazie ai quali poteva chiarire il suo scopo: senza la Democrazia Cristiana, senza i radicali, senza i repubblicani o i monarchici, senza i fascisti, che senso aveva dire che uno è “di sinistra”?
Tutte le vie di mezzo sono state cancellate: o sei con Berlusconi, o sei di sinistra.
Ecco un estratto di una conversazione in radio tra Fabio Volo e un ascoltatore che gli aveva appena dato del comunista.

Togliendoci il significato di “sinistra”, di “comunista”, e usandoli a mo’ di insulto, Berlusconi ha tolto a tutti noi la libertà di essere noi stessi e basta, la libertà di pensarla come ci pare e di non essere per forza parte di uno schieramento. Ci ha presi tutti e ci ha divisi a suo piacimento tra la sua Squadra e quella degli altri, dei comunisti, dei farabutti, dei fannulloni…
Era il 19 aprile del 1994 e Berlusconi festeggiava assieme ai suoi giocatori il terzo scudetto consecutivo del suo Milan.
“L’Italia sarà come il Milan”, ha detto il presidente. E così come lui ha voluto, è stato.

Si ringraziano micky78 e flickr per la foto

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La manifestazione è bella perché è varia

Ottimisticamente, avevamo deciso di raggiungere piazza del Popolo col motorino, nel consueto slalom tra gli automobilisti romani incazzati cronici. Ma il 3 ottobre, per le strade di Roma, gli incazzati non erano solo seduti in macchina: ce n’erano in moto, motorino, metropolitana, autobus da tutta Italia, schiacciati all’inverosimile in una piazza del Popolo scelta preventivamente dalla FNSI per la manifestazione. “Metti che facciamo un flop clamoroso – avranno pensato – piazza del Popolo la riempiamo subito”.
Contro ogni aspettativa, credo, non solo la piazza era stracolma di gente, ma anche le limitrofe via di Ripetta, via del Corso, il piazzale antistante alla metropolitana, lo sbocco del Muro Torto…un fiume di gente ininterrotto.
Dal palco Vianello dava le cifre: 300.000 secondo gli organizzatori, 60.000 per la questura, che da anni ha problemi con la matematica e la fisica del dissenso.
Non so quantificare quanti saremmo stati, ma sicuramente in piazza c’era di tutto: ragazzi reduci dal corteo dei precari della scuola, coppie della sinistra freak-chic romana, elegantemente casual e sorridenti, plotoni di anziane agguerritissime nel raggiungere inizialmente il sottopalco; rendendosi poi conto della mission impossible, hanno ripiegato sulle ringhiere a metà piazza, da raggiungere senza lesinare nelle gomitate nei fianchi accompagnate dalle giustificazioni “spòstate che so’ piccola e nun ce vedo” e “daje che me fanno male ee gambe”. Universitari accompagnati dai genitori, turisti incazzati (temo non per la qualità della stampa in Italia), ciclisti rimasti imbottigliati nella fiumana, cinofili estremi che non hanno risparmiato al loro cane la presenza all’evento, bambini in spalla ai genitori, una coppia aveva addirittura programmato il battesimo del figlio nella chiesa a ridosso degli archi di piazza del Popolo, tempistica decisamente poco azzeccata per il traffico di passeggini ed invitati in mise elegante.
Sopra le nostre teste, bandiere del PD, IdV, comunisti di vario genere e stampo, cartelli contro Silvio Berlusconi e contro il PD, bandiere de “l’Unità” con slogan di Gramsci “Odio gli indifferenti”, lo striscione de “I farabutti di Raitre”, gruppi arci, bandiere della CGIL.
Se il popolo manifestante era largamente politicizzato, sul palco gli interventi sono stati invece molto apartitici, tutti i leader relegati o dietro le quinte o davanti al palco, evitata, per la gioia di molti, qualsiasi passerella propagandistica.
Senza i soliti arringatori di folla da palcosenico (Andrea Rivera, in contestazione con l’organizzazione della manifestazione, si prenderà il palco solo verso le 8 di sera), gli interventi sono stati molto misurati: sotto il palco, tutti incazzati; sopra il palco, tutti molto attenti a non far degenerare un dissenso sacrosanto nella solita bagarre di piazza.
Dalla nostra postazione, abbastanza lontana dai megafoni, siamo riusciti solo a sentire pochi degli interventi previsti: Saviano sicuramente il più acclamato dalla folla, coi suoi soliti toni miti ma efficaci, in un discorso diretto alla testa più che alla pancia, come lo stesso Neri Marcorè e la sua lettura de “La democrazia americana” di Toqueville, alla faccia di chi denuncia l’imbarbarimento della satira.
Memorabile l’annuncio dal palco di Simone Cristicchi: “C’è una Escort bionda targata Bari da spostare davanti a palazzo Grazioli”.
E’ da registrare un certo dissenso nella folla per l’assenza di interventi trascinanti, stile curva sud: “Ma uno che s’arza a dire un paio de bestemmie nun ce sta?”, si vociferava attorno a me. Nella fauna variopinta del 3 ottobre, purtroppo, c’è stato anche questo, ma in definitiva il bilancio complessivo è sicuramente positivo, almeno per due motivi:
Primo, come ha scritto Luca Telese per il Fatto Quotidiano, era da molto tempo che tutto il popolo dell’opposizione non si riuniva in una manifestazione unitaria: dai comunisti marxisti leninisti ai sostenitori de “l’Avvenire”, eravamo tutti là a sudare, applaudire ed indignarci assieme. E’ un segnale forte che deve farci riflettere sulla vastità dei malumori che aleggiano in Italia, a dispetto dei sondaggi degli esperti berlusconiani.
Secondo, anche solo per la scandalosa diretta del Tg4 di Emilio Fede che, mi dicono, ha cercato di minare e minimizzare tutta la manifestazione, per l’editoriale di Minzolini al Tg1 che, in sostanza, dava a noi tutti dei patetici visionari, ammassarsi in 300.000 a piazza del Popolo è stato giusto e doveroso.
Volevamo dimostrare che non ci arrendiamo, che nonostante tutto ci siamo. E nonostante tutto, per una volta, ci siamo stati davvero.

si ringraziano Lo spacciatore di lenti e Flickr per la bellissima foto.

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Il culto di Silvio

Ieri, 23 settembre Anno Silvii XV, l’epopea del culto della personalità del premier si è impreziosita di un nuovo tassello.  E’ comparso infatti su Youtube il trailer de “La Pace Può”, inno ufficiale per la candidatura al prossimo Premio Nobel per la Pace del presidente del Milan.
Dopo “Meno male che Silvio c’è” e “Silvio Forever”, al canzoniere del Popolo delle Libertà si è aggiunta l’opera di Loriana Lana, già autrice di liriche per Iva Zanicchi, Tony Esposito e Mariano Apicella (con “Tempo di rumba”, scritta a quattro mani con Silvio Berlusconi).
Al coro di “Silvio grande è”, la canzone pone l’accento sulle gesta salvifiche dell’Unto del Signore in terra d’Abruzzo, sul “Presidente sempre presente che ci accompagnerà”, incastonando il tutto nell’ambientazione bucolica della campagna abruzzese, dove “la neve e il sole che si incontrano” anticipano l’apparizione del premier.
La nascita spontanea di queste esaltazioni del potere incarnato, di queste professioni di fede profonda verso la figura oramai mitizzata del leader, ha avuto nella storia precedenti illustri.

Anni ’60, Cina, Rivoluzione Culturale. Uno degli avvenimenti più tragici e sanguinosi della storia mondiale ha avuto come sottofondo sonoro, trasmesso all’alba ed al tramonto da ogni apparecchio radio della Repubblica Popolare, l’inno “Dongfang Hong”, L’Oriente è Rosso, elogio accorato al comunismo, al maoismo ed alla figura di Mao Zedong.

“Egli lavora per il bene del popolo,
Hurrà, lui è il grande salvatore del popolo!
Il Presidente Mao ama il popolo,
è la nostra guida,
per costruire una nuova Cina.
Hurrà, ci guida verso il futuro!”

Nel frattempo, in Corea del Nord, i soldati di Kim Il-sung componevano assieme agli alleati cinesi della Guerra di Corea un inno simile dedicato al loro condottiero, scomparso nel 1994. “La canzone del Generale Kim Il-sung”, molto nota anche in Cina, è sopravvissuta al conflitto tra Corea e Stati Uniti, rimanendo ancora oggi un tema molto in voga a Pyongyang.

Egli è il benefattore che ha liberato i lavoratori,
Egli è il grande Sole della nuova Corea democratica

Oh che dolce nome, Generale Kim Il Sung!
Oh che nome glorioso, Generale Kim Il Sung!”

Se la tradizione celebrativa dei grandi uomini è stata pratica comune durante le peggiori dittature asiatiche, in Europa abbiamo ragione di pensare che l’esempio degli inni dedicati a Silvio Berlusconi rappresentino un unicum nella storia del Vecchio continente.
Nonostante le ricerche effettuate, sembra che né Francisco Franco, né Benito Mussolini, né Adolf Hitler possano vantare degli omaggi canori del calibro di “Meno male che Silvio c’è” o “La Pace Può”.
Questo tipo di inni, come già aveva notato Roberto Cotroneo, mirano ad esaltare non un’idea o un principio, bensì la viva persona in carne ed ossa che, con le sue azioni eccezionali, trascende il gruppo di appartenenza (PdL) o la categoria di riferimento (politici? statisti?), trasferendosi su un piano di divinità, nuovo Messia.
Il fenomeno, che potremmo snobbare come espressione della deficienza più becera, racchiude invece una serie di particolari agghiaccianti: l’adulazione smodata per la persona di Silvio Berlusconi, o per il feticcio mitologico creato dai suoi media, nasconde in realtà il vuoto più totale di un ideale di vita, di un progetto per il proprio futuro condiviso con il leader che, temporaneamente, si impegna a promuovere nella società. E’ la prova dell’assuefazione che gli elettori provano per il loro leader.
Un leader che, gongolandosi nella veste di Dio Adorato, ha già previsto e realizzato da tempo un mausoleo nella propria tenuta di Arcore, imitando i compagni Mao e Kim: una fine eccezionale per un uomo eccezionale.


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Martiri della democrazia

Sul sito web di Daniela Garnero in Santanchè, il post del 16 settembre recita: “Per onorare la memoria di Sanaa impediamo che le donne musulmane entrino con il burqa, uno degli strumenti piu’ vergognosi del fondamentalismo islamico, al Vigorelli e in altri luoghi domenica prossima in occasione dei festeggiamenti per la fine del ‘Ramadan’”.
In difesa della dignità femminile e con i pacifici presupposti di quattro giorni prima, la leader di Movimento per l’Italia ha mantenuto ieri la promessa, mobilitandosi assieme ad un manipolo di crociati dei diritti del gentil sesso. Scarpetta da ginnastica rosa e jeans attillati, ha raggiunto viale Jenner a Milano nell’ultimo giorno del Ramadan per far valere, in quanto socia Billionaire, i suoi diritti sugli usi e costumi della comunità musulmana, raccolta a festa davanti al luogo di preghiera.
Inspiegabilmente, l’accoglienza riservata non è stata calorosa come prospettato: nel tentativo di togliere il burka ad alcune partecipanti, la Santanchè è stata colpita da un non meglio identificato “maschiointegralistaislamicoingessato”, procurandosi contusioni al petto e risentimenti al nervo sciatico: 20 giorni di prognosi.
A Daniela, strenua combattente per la dignità femminile, indomita paladina del diritto al velinismo ed al calendario sexy per tutte, ennesima vittima dell’import-export di democrazia, va tutta la nostra solidarietà.

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18 settembre 2009: prima Ronda Nera a Roma

“I hate Illinois nazis…”

Jake Blues

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Morire di dignità

Morire in Afghanistan è evidentemente un’impresa eroica. Le salme dei sei militari italiani uccisi ieri a Kabul sono già cumuli di ossa sacre, eroiche spoglie di martiri della democrazia: così le descriveranno i politicanti in questi giorni.
Le descriverà così Silvio Berlusconi, che sul Corriere della Sera ha ricordato che “come gli altri alleati siamo impegnati per difendere la democrazia che si sta affermando in questo paese e che, comunque, è ancora molto lontano dall’essere civile e moderno”, una modernità e civiltà da misurarsi, secondo il demiurgo di Milano 2 e Milano 3, in chilometri di asfalto: “Io ho detto per esempio che un’idea potrebbe essere quella di asfaltare le strade perché lì ci sono discariche continue e questo dà proprio un senso dell’abbandono e del Medio Evo”.

Le descriverà così Ignazio La Russa, ministro della Difesa, quello del “Vili, non ci fermeranno”, lui sì di una violenza verbale e di una barbarie davvero medievale.
Mentre ogni giorno qui in Italia muoiono 4 operai sul posto di lavoro e in Afghanistan muoiono decine, centinaia di ci-Vili, noi dobbiamo piangere i nostri eroi di Kabul. Morti lontano da casa, in uno stato così lontano dalla Sardegna o dalla Campania che è difficile addirittura pronunciarne il nome per le loro famiglie.
Diranno ai parenti che sono morti con onore, per difendere la democrazia, senza avere rispetto per quei militari tornati in un sacco di plastica, né per quelli in Afghanistan, né tantomeno per le loro famiglie.
Le nostre truppe, come ha ricordato su PeaceReporter Fabio Mini, ex comandante del contingente Nato in Kosovo, sono in guerra per salvare l’immagine internazionale della Nato, per un’operazione di marketing pagata col sangue.
Muoiono in Afghanistan per la dignità del loro Paese.
Quella dignità che, come i nostri soldati, qui in Italia muore ogni giorno di più.

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