scritto per Rivist@
Il ministro Gelmini ha proposto di istituire un tetto massimo del 30% per gli alunni stranieri nelle classi degli istituti scolastici italiani. Cosa ne pensano gli stranieri? Lo abbiamo chiesto a Marco Wong, presidente onorario di Associna, che giovedì 28 gennaio parteciperà ad un’audizione parlamentare dedicata all’istruzione ed all’integrazione, due concetti che il signor Wong incarna perfettamente: nato a Bologna da genitori cinesi nel 1963, ha completato il suo percorso di studi con una laurea in Telecomunazioni al Politecnico di Milano; ha lavorato per Pirelli, TIM, Huawei Technolgies Italia. Oggi vive a Roma e ricopre la carica di presidente di Associna, l’associazione dei cinesi delle seconde generazioni.
R@: Cosa ne pensa della proposta del ministro Gelmini, che assegna alle presenze di alunni immigrati nelle classi un tetto massimo del 30%?
MW: La difficoltà nel realizzare un obiettivo come quello della Gelmini sta nel fatto che la maggioranza degli stranieri si concentrano in alcune aree della città, non sono omogeneamente distribuiti nel territorio. Ci sono quindi alcune scuole dove in effetti questo obiettivo del 30% è più facilmente raggiungibile, ma ci sono altre aree in cui c’è una forte concentrazione non per una particolare volontà, ma anche solo per motivi economici o sociali, in presenza di un centro consistente di immigrati oppure di prezzi più bassi. In queste aree, il rispetto delle percentuali suggerite dal ministro Gelmini sarebbe decisamente più problematico.
R@: Sempre secondo il ministro Gelmini, coloro che dimostreranno una competenza linguistica sufficiente non rientreranno nel conteggio. Ma questo livello, da chi è determinato? Chi decide se un immigrato raggiunge o meno la sufficienza linguistica?
MW: Infatti questo è uno dei punti deboli della proposta. Diciamo che l’obiettivo generale potrebbe essere condivisibile, essendo più facile per una classe più varia raggiungere l’obiettivo dell’integrazione. Purtroppo, la bontà di una legge si valuta in base al modo in cui si applica, ai mezzi che ci sono per poterla applicare. Altrimenti, si tratta solamente di un sogno, o di un proclama. Come poter realizzare questo obiettivo? E’ un interrogativo al quale ancora non è stata data una risposta. Nel contempo però, si verificano continui tagli su quei capitoli di spesa che dovrebbero proprio concorrere alla realizzazione di queste quote. E’ tutto molto contraddittorio: da un lato si pone un obiettivo, e dall’altro si tagliano i mezzi per raggiungerlo.
R@: Quali sarebbero secondo lei gli strumenti per facilitare il processo di integrazione?
MW: Sicuramente andrebbero supportate tutte quelle iniziative che tendono a superare il gap linguistico, che è l’ostacolo principale all’integrazione. E attualmente gli istituti scolastici non sono nelle condizioni per affrontare questo genere di problematica. All’interno della comunità cinese, ad esempio, è molto frequente il caso di ragazzi nati in Italia che, non potendo essere seguiti adeguatamente dai genitori per motivi di lavoro e non riuscendo a superare le difficoltà linguistiche nella scuola italiana, vengono mandati a crescere in Cina: lontani dai genitori e viziati dai nonni, abituati ad uno stile di vita medio-alto grazie ai soldi che ricevono dai propri genitori in Italia. Poi, quando i genitori in Italia raggiungono un certo grado di stabilità, magari in età adolescenziale, vengono fatti tornare in Italia, soffrendo di un gap linguistico-culturale ancora maggiore, in aggiunta alla differenza nello stile di vita: qui in Italia non appartengono più al ceto medio-alto cinese, ma al ceto attualmente più basso nella scala sociale italiana: l’immigrato. Inoltre le cosiddette seconde generazioni, in questo contesto legislativo, nonostante siano nate in Italia oggi si ritrovano ad essere stranieri nel loro paese natale.
R@: Secondo lei, per quale motivo il diritto alla cittadinanza è così difficile da far valere per un immigrato in Italia?
MW: Per certe fasce della popolazione, verso le quali addirittura si cerca di creare un clima di ostilità nei loro confronti, la burocrazia italiana, generalmente inefficiente, per alcuni lo è ancora di più. Ad esempio, io dico sempre che il primo contravventore della legge Bossi-Fini è lo Stato stesso. La legge prescrive che il permesso di soggiorno deve essere rilasciato in venti giorni: secondo le ultime statistiche, risulta che il documento arrivi a destinazione dopo 200 giorni, con picchi di 280 giorni. C’è gente che si vede arrivare il permesso di soggiorno già scaduto. Questo indica la scarsa volontà di applicare la legge stessa. Con la criminalizzazione della clandestinità poi, l’applicazione attuale della legge Bossi-Fini finisce per alimentare se stessa. I criteri stessi per ottenere la cittadinanza esistono, ma non sono assolutamente trasparenti. Per questo il diritto alla cittadinanza non è più un diritto, sembra oramai una sorta di concessione.
R@: Tornando alla scuola, secondo lei gli insegnanti sono preparati adeguatamente dallo Stato ad affrontare la sfida dell’immigrazione? Esistono corsi di aggiornamento o, specie nelle grandi città, reti comunali che mettano gli istituti scolastici in contatto con gli studenti universitari di lingue orientali o mediatori di altro tipo per aiutarli nelle classi?
MW: Come spesso succede, molto è lasciato alla buona volontà degli insegnanti. Ci sono lodevoli esempi che, grazie alla volontà del singolo, riescono ad ovviare ai deficit del sistema. Come al solito è un problema di fondi, e quel poco che viene dato viene usato maggiormente per far fronte a situazioni di emergenza, piuttosto che investirlo in programmi di integrazione. Nel quadro generale direi che manca un po’ questa volontà di cercare di dare una vera risposta a queste tematiche.
R@: Nel processo decisionale dei provvedimenti diretti a regolare la vita delle comunità migranti, come questo dell’istruzione, le comunità stesse si sentono coinvolte? Chi porta la voce degli immigrati nelle sedi istituzionali? I partiti si sono aperti alle minoranze del nostro paese?
MW: La migrazione, si dice, è un problema recente. Non è vero: nell’Italia del boom economico, la migrazione dal sud al nord del paese aveva le stesse caratteristiche dell’immigrazione odierna. All’epoca, si potevano trovare per le città gli stessi cartelli che oggi insultano le minoranze, c’era chi non voleva affittare la casa ai terùn…la differenza principale è che nella migrazione interna, i migranti erano anche elettori, ciò che i migranti di oggi non sono. Per cui, un calabrese che negli anni ’50 si trasferiva al nord, pur affrontando un gap linguistico-culturale simile ad un migrante di oggi, rappresentava per le istituzioni un potenziale elettore, e come tale doveva essere tutelato e coinvolto. Questo non si verifica con gli stranieri. Dal punto di vista politico è molto più vantaggioso escludere dagli aventi diritto di voto gli stranieri e anzi usarli come un argomento di campagna elettorale. Finché non ci sarà la possibilità di esprimere il voto per i cittadini stranieri, il problema dell’integrazione resterà irrisolto. La rappresentatività dei cittadini è uno dei fondamenti della democrazia: “no taxation without representation” dicevano i coloni americani prima della rivoluzione americana. La maggior parte degli ex-stranieri eletti in parlamento vengono eletti perché giustificano determinate politiche nei confronti degli stranieri stessi. Chi viene eletto? L’ex musulmano, ad esempio, che maggiormente da contro alla propria comunità di origine, con relativa eco mediatica ed appeal politico. Si tende a considerare l’immigrato come un problema, non come un cittadino con esigenze da risolvere. Quello che io vedo è che, purtroppo, molti degli sforzi fatti oggi in Italia non sono incanalati verso il cambiamento, ma nel tentativo di fermare il cambiamento. Molti dei ragazzi che sono oggi nelle scuole, saranno i cittadini del domani, ed è nell’interesse dello Stato che diventino dei buoni cittadini. L’investimento che si fa nell’educazione è sicuramente qualcosa che ritorna amplificato tantissime volte, quindi bisogna cercare di fare questo investimento nella società del domani.