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La nuova guerra fredda

 

 

Ora è tutto più chiaro. La redenzione di Google, la minaccia di abbandonare il mercato cinese e la voce grossa sulla libertà d’ informazione e la privacy degli utenti erano tutti elementi di un solo grande piano, architettato agli inizi di quest’anno.
Smistando le migliaia di reazioni al post dell’11 gennaio di David Drummond, A new approach to China, accolto a ragion veduta come una ferma condanna alla censura ed allo spionaggio industriale cinese, la Reuters segnalava che, solo una settimana prima, il Segretario di stato Hillary Clinton aveva incontrato i top manager delle corporation americane, tra le quali spiccavano i nomi di Google, Twitter, Cisco e Microsoft.
Degli esperti di marketing come i dirigenti di Google non si sarebbero mai esposti così nettamente, ed apparentemente senza un ritorno economico consistente, se non avessero incassato delle garanzie dalle istituzioni. Noi ci mettiamo la faccia, ma voi ci dovete appoggiare. Detto, fatto.
Il 22 gennaio Hillary Clinton pronuncia al Newseum journalism museum di Washington un discorso sulla libertà di internet che in molti hanno definito epocale. Wen Yunchao, un blogger di Guangzhou, l’ha paragonato al discorso della Cortina di Ferro di Churchill.
Invitando a più riprese i Paesi che attuano un controllo del flusso di informazioni online a rinunciare alla censura e preannunciando una nuova campagna per la libertà di internet ne mondo,  la Clinton ha fatto espressamente riferimento al caso Google-Cina, auspicando una maggiore efficacia di Pechino nell’arginare l’azione illegale degli hacker cinesi.
Accuse rispedite immediatamente al mittente: Ma Zhaoxu, portavoce del ministero degli Esteri, ha bollato le accuse del segretario di stato americano come “molto distanti dalla realtà dei fatti”. “La costituzione cinese – ha dichiarato Ma – protegge il diritto di espressione dei suoi cittadini, ed è intenzione del governo promuovere lo sviluppo di internet nella nazione”. Sono dichiarazioni assurde per chi conosce lo stato dell’informazione all’interno dei confini della Repubblica Popolare, ma tanto basta per ribadire un concetto particolarmente caro alle autorità cinesi: la non interferenza negli affari interni.
Quello degli americani è un attacco retorico pianificato ed accurato, frutto di un’amministrazione Obama che conosce bene i cinesi, e sa dove e come attaccarli: oltre all’interferenza nella politica interna, i cinesi malsopportano anche perdere pubblicamente la faccia. La politica, come le relazioni umane, in Cina è fortemente regolata da un codice comportamentale mite e moderato, inteso interamente a preservare l’immagine che diamo agli altri, a non perdere la faccia (diu mianzi, in cinese). Più che l’essere, il politico cinese punta all’apparire sempre calmo, riflessivo, paziente, umile e rispettoso.
L’accusa lanciata sul web da David Drummond, e rimbalzata nel giro di pochi minuti sui giornali di tutto il mondo, aveva precisamente quell’obiettivo: innervosire Pechino facendogli perdere la faccia davanti all’opinione pubblica mondiale.
Non a caso Eric Schmidt, direttore generale di Google, si è affrettato a chiarire al Financial Times che Google non vuole ritirarsi dal mercato cinese.
Google ha solo avuto ruolo di  preparare il campo per la nuova guerra fredda: la Cina, che ha saputo registrare un incremento dell’8,7% del PIL in un 2009 catastrofico per l’economia mondiale, è una potenza mondiale immune alle moderne armi del mercato globale.
La speranza degli Stati Uniti è che, sbriciolando dall’interno il Great Firewall cinese, si riesca ad aprire un potenziale mercato interno alla Repubblica Popolare dove poter registrare profitti non più frenati dalle leggi dittatoriali cinesi, e magari fomentare un dissenso organizzato per far incespicare il gigante.
Un gigante che esce quasi indenne dalla crisi economica, continua ad assicurarsi il controllo delle risorse energetiche (la scorsa settimana si è aggiudicato il controllo di un bacino petrolifero in Nigeria) e naviga nelle dolci acque territoriali garantite dalla censura e dal regime.
Per questo sarebbe opportuno frenare facili euforie: gli Stati Uniti non stanno combattendo una guerra contro la censura, non vogliono salvare i cinesi.
Vogliono, semplicemente, salvare loro stessi.

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Google, Hollywood e la nuova esportazione di democrazia

 

Google, lamentando l’incompatibilità del proprio marchio a sottostare alle leggi della censura online, minaccia di abbandonare il mercato cinese. Avatar, kolossal di James Cameron già campione d’incassi nella Repubblica Popolare, verrà tolto dalle sale in 2D dal 23 gennaio.
A distanza di pochi giorni, in questo gennaio 2010, il governo cinese sembra messo alle strette dall’onda dirompente della cultura made in USA; un impulso che sta cercando abbattere le mura censorie del Partito Comunista Cinese a tutti i costi.
Stufi di agire entro il recinto concesso dalla dittatura cinese alle corporation internazionali, Google ha provato a forzare la mano adottando la logica del ricatto. Il mercato cinese è una miniera d’oro controllata stabilmente dal Partito Comunista Cinese che, con la politica dell’apertura promulgata da Deng Xiaoping alla fine degli anni ’70, ha progressivamente permesso la penetrazione di aziende internazionali nella spartizione della torta. Unica clausola, il rispetto delle regole dello stato, anche in materia economica.
A differenza del libero mercato occidentale, dove è l’egemonia americana a dettare le regole del mercato globale, in Cina la mediazione è affidata direttamente alle autorità governative che, in virtù del metodo dittatoriale di gestione dello stato, si riservano il diritto di fissare le regole dei giochi;
giusto o sbagliato che sia, l’accettazione delle leggi cinesi è la condizione primaria per poter agire nel mercato più vasto del mondo. Google, quando nel 2006 ha aperto l’omonimo motore di ricerca in lingua cinese, ha accettato e sottoscritto le condizioni imposte dal governo, salvo disattenderle arbitrariamente proprio nel gennaio 2010, anteponendo una presunta redenzione morale alla ragione di essere di una corporation: il profitto. O forse, visto il trattamento di favore riservato dal governo al motore di ricerca cinese Baidu, il colosso di Mountain View ha preferito far leva sulla crociata dei diritti umani per tentare di abbattere il Great Firewall cinese, che oltre a bloccare il flusso di informazioni “sensibili” blocca anche una gran quantità di quattrini.
La Cina è l’unico Paese dove le grosse aziende americane non agiscono secondo uno status di oligopolio: entro i confini della Repubblica Popolare, Google, Microsoft, Yahoo, Cisco, Yahoo non sono le prime della classe, e non riescono a farsene una ragione.
Anche per la distribuzione di Avatar, affidata come il resto dei film occidentali importati in Cina (non più di 20 all’anno) alla China Film Group, vale lo stesso discorso.
La monumentale pellicola di James Cameron, che pregna di messaggi ambientalisti e pacifisti dovrebbe ispirare alla rivolta tutta la varietà di assoggettati cinesi (tibetani, uighuri, braccianti delle campagne e sfrattati delle metropoli), il 23 gennaio sarà tolta dalle 4500 sale in 2D sparse per tutto il territorio della Repubblica Popolare in concomitanza con l’uscita di Kongzi: una produzione nazionale che ripercorrerà la vita di uno dei massimi filosofi nella storia cinese, Confucio, recentemente riabilitato dopo le purghe culturali maoiste. In altre parole, la distribuzione cinese ha legittimamente preferito togliere dal cartellone una pellicola che trasuda americanità ad ogni fotogramma (dalle teste rasate dei marines, passando per la spettacolarizzazione del tribalismo fino all’ambientalismo new age) per non intralciare un prodotto cinese che parla ai cinesi della loro storia e delle loro radici, proprio a ridosso del capodanno cinese.
Il caso Google ed il caso Avatar, impacchettati e fagocitati dall’opinione pubblica come lotte per la libertà e per i diritti umani, sembrano in realtà molto meno nobili questioni di egemonia.
Da un lato, la cultura americana vuole espandersi oltre i picchetti cinesi, esportando la propria democrazia e permettendo ai cinesi di “armonizzarsi” alla popolazione mondiale e godere delle loro libertà: la libertà di vedere i loro film, di usare i loro motori di ricerca, di comprare i loro prodotti e di consumare come loro. Dall’altra, l’ala conservatrice del Partito Comunista si arrocca sulla censura per ritardare il più possibile un inevitabile processo di riforme sociali, la fase due della politica di apertura teorizzata dallo stesso Deng trent’anni fa. In mezzo, ingannati dalle corporation americane, censurati e controllati dal Partito Comunista, ci sono sempre loro: i cinesi.

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Cina: prove generali di soft control

L’onda viola che il 5 dicembre ha invaso le strade di Roma per il No Berlusconi Day ha fatto notizia anche in Cina. L’agenzia di stampa Xinhua, due giorni dopo, ha pubblicato un articolo citando le centinaia di migliaia di persone scese in piazza contro Berlusconi. Segue un elenco dettagliato delle ultime vicende del premier, dagli scandali sessuali al lodo Alfano, dal caso Mills alle recenti accuse del pentito Spatuzza.
In Cina la piaga della corruzione e della concussione con le mafie orientali ha coinvolto e continua a coinvolgere le istituzioni ad ogni livello. Nei casi più eclatanti diventati di dominio pubblico, l’epilogo, diversamente dalle nostre abitudini italiane, spesso coincide con delle punizioni esemplari: dall’estromissione dalle cariche pubbliche si può passare facilmente, come per lo scandalo Sanlu del latte in polvere avvelenato, alla pena di morte. In Cina, un Berlusconi qualsiasi sarebbe stato silurato anni fa. Per questo, la cronaca del 5 dicembre si presta a paragoni tra politici cinesi ed italiani arricchita di molti dettagli.
Tranne uno.
Il ruolo di internet nell’organizzazione della manifestazione è stato completamente censurato. L’elemento di novità principale, la prima mobilitazione popolare imponente organizzata interamente in rete, non ha trovato spazio in nessun resoconto sulla stampa cinese.
L’esempio italiano, il trasferimento del dissenso dalla virtualità di Facebook alla dimostrazione di piazza, è l’incubo del Partito Comunista Cinese. Oggi, con oltre 350 milioni di utenti online, una nuova Tiananmen invocata da Twitter significherebbe per il governo una crisi senza precedenti.
Meno di un mese fa, Obama auspicava una maggiore libertà dei nuovi media cinesi. La risposta non si è fatta attendere.
L’8 dicembre, le autorità governative hanno chiuso BTchina, il principale portale BitTorrent per scambio file della Repubblica Popolare, giustificando il procedimento come l’inizio di una nuova politica a difesa dei copyright (concetto molto vago per l’economia cinese).
Solo una settimana prima, Yeyaan.com, sito partner del quotidiano The Guardian che traduceva in cinese le principali notizie provenienti da giornali anglofoni, è stato oscurato, mentre è stata istituita una linea telefonica dedicata, ufficialmente, alle segnalazioni da parte degli utenti di siti contenenti materiale pornografico. I buoni cittadini che collaboreranno col governo potranno guadagnare fino a diecimila yuan, poco meno di 1500 dollari.
Il nuovo corso del controllo della rete in Cina si può ben comprendere dalle parole di Tuo Zuhai, funzionario del ministero della Cultura: “La comunità della rete è diventata una parte importante della società – ha dichiarato Tuo –  ed è necessario garantire l’ordine anche in rete. Per questo il governo sta preparando alcune leggi”.
Ufficialmente dichiarando guerra al mercato del porno ed all’eccessiva violenza nei giochi online, popolarissimi tra i giovani cinesi, il governo sta pensando di obbligare gli utenti ad utilizzare il proprio nome e cognome anche nelle attività in rete: abolendo i nickname, gli internauti cinesi potranno dire addio definitivamente alla loro privacy.
Inoltre, sembra che i legislatori cinesi stiano approntando un pacchetto di nuove norme inerenti la proprietà virtuale in internet, la difesa del copyright intellettuale sui dati presenti in rete, la valutazione dei contenuti dei siti internet e la prevenzione alla dipendenza da giochi online.
La nuova campagna culturale è iniziata: la demonizzazione di internet come luogo di perdizione ed impuro, un far west digitale lontano dal controllo del governo dove la troppa libertà dà adito ad attività illegali di ogni sorta, dalla pornografia al mercato parallelo dei crediti virtuali per i giochi online, giustificherà la mano pesante delle istituzioni che si apprestano all’ennesima sospensione delle libertà.
La Cina è una costante palestra di censura 2.0 e soft-control. Tecniche, ricordiamolo, facilmente esportabili ed adattabili.
Per qualcuno in occidente, la tentazione potrebbe essere grande.

11 dicembre 2009, aggiornamento:
La censura non è totale, Arinna mi ha segnalato che in un giornale in lingua cinese si è parlato anche del ruolo di internet nella manifestazione. Si tratta di un sito internet con sede negli Stati Uniti, 6park.com, dove è possibile trovare il testo (in cinese) della cronaca fedele: http://www.6park.com/news/messages/50793.html
Grazie ad Arinna per la segnalazione.

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Indignazione ad orologeria

copyright matteo miavaldi

In Cina la distanza tra il potere stabile del Partito Comunista e i confini turbolenti del Tibet la si potrebbe percorrere ogni giorno partendo dalla stazione di Beijing Ovest, destinazione Lasha: 48 ore e mezzo per tagliare da parte a parte tutta la nazione, dai grattacieli della capitale in fremito pre-olimpico alle vette più alte del mondo.
La macchina della censura si è attivata con precisione chirurgica; già da venerdì sera molte testate giornalistiche online non erano raggiungibili, Youtube è stata oscurata, i telegiornali nazionali hanno  dato all’argomento rilevanza minima e il Renmin Ribao di Domenica, primo quotidiano cartaceo cinese come tiratura, su dodici pagine non ha dedicato nemmeno un trafiletto alla sommossa tibetana, mentre un articolo a tutta pagina testimoniava la presenza di Hu Jintao ad una sorta di “giornata della natura”, immortalando lo stesso Presidente della Repubblica Popolare nell’atto di innaffiare un albero appena piantato assieme ad alcuni studenti sorridenti : da tre giorni per il resto della Cina, Lasha è ancora più distante.
Addirittura al Tempio dei Lama di Pechino, presunta sede pechinese della fede lamaista, domenica mattina la situazione era assolutamente normale: i monaci passeggiavano tranquilli vicino all’enorme statua di Buddha della sala principale, circondati da fiotte di turisti tedeschi ed americani sbarcati da decine di pullman dei tour organizzati: the show must go on.

La gravità della situazione è nota a tutti, molto più nota a chi legge dall’Italia dove, mi dicono, la notizia è stata riproposta in toni martellanti per giorni, tanto che si inizia a pensare seriamente ad un boicottaggio della delegazione Italiana alle prossime Olimpiadi.
Come giustamente ha scritto Venturini sul Corriere nel suo brillante commento, sarebbe l’ennesima vittoria dell’ipocrisia più schifosamente occidentale che, da decenni, il monolite democratico del quale ci fregiamo orgogliosamente parte integrante, attua nei confronti dei fuori casta del resto del mondo, di coloro che dovrebbero imparare da noi la democrazia e il rispetto dei diritti umani.
Se fino a 20 giorni fa potevo solo immaginare l’entità dell’ipocrisia, oggi passeggiando in città la posso vedere coi miei occhi.

A Wangfujin, la Via del Corso di Pechino, le guide indirizzano i turisti verso un paio di viuzze dove si vendono chincaglierie d’ogni genere, bettole molto poco igieniche dove si possono mangiare spiedini di shanzha caramellati, spiedini di scorpione ed insetti vari creati appositamente per noi waiguoren (come vengono chiamate in Cina gli stranieri): in una decina di minuti le hai visitate tutte e puoi tornare sul viale principale dove, davanti ad un MacDonald mastodontico, George Clooney ti guarda pubblicizzando un orologio di lusso che un cinese medio non si potrebbe permettere nemmeno con anni di lavoro, il primatista mondiale dei 100 metri piani è immortalato in posa plastica, sottotitolato da “impossible is nothing”, rigorosamente tradotto in cinese e decorato dal bollino ufficiale dei Giochi Olimpici.
Poco più avanti un gruppo di cinesi fa la fila per prendersi un gelato da Baskin-Robbins, arcinota quanto pessima catena di gelati statunitense: hanno tutti scarpe nike, jeans, capigliature post-punk, alcuni addirittura si cotonano i capelli.

Poi c’è l’onnipresente Yao Ming, cestista ambasciatore della Cina nell’NBA, che pubblicizza qualsiasi oggetto commercialmente rilevante, per la gioia di Mike Stern, Presidente della National Basketball Association, e di tutti i ragazzi di Pechino che indossano canotte da basket extralarge, atteggiandosi nelle discoteche come se fossero nati ad Harlem, non nel Sichuan, dove oggi i loro conterranei hanno assaltato una stazione di polizia e sono morti in 8.

Chi oggi urla allo scandalo tibetano, nel 2001 ha votato a favore dei Giochi Olimpici in Cina, ha chiuso gli occhi di fronte alle contraddizioni agghiaccianti di una nazione grande come un continente e ha fatto affari d’oro pubblicizzando il mondo delle favole del vecchio continente, dove “impossible is nothing”, mentre qui grazie anche a Microsoft e Google è davvero impossible avere un briciolo di informazione: la democrazia alla cinese è andata in onda tutto il giorno sulle reti nazionali, quando più di duemila delegati dell’Assemblea del Popolo si sono riuniti a Pechino per ratificare le scelte politiche già prese dal Comitato Permanente, con tanto di farsa di voto infilato nell’urna a suon di applausi, con sottofondo di musica classica stile concerto di capodanno viennese.
Se davvero alla comunità internazionale sta a cuore la sorte del popolo cinese, presenziare alle Olimpiadi è un obbligo morale: per ora abbiamo mostrato alla Cina la nostra facciata più bieca ed opportunista. Entro Agosto, riusciremo a mascherarci da Paesi Modello?

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